Presentazione

Lo Sport è un diritto di tutti. Non è scritto nella Costituzione, della quale, con rispetto, riteniamo sia una carenza, ma lo diciamo noi. I pur lungimiranti Padri della Costituzione non potevano minimamente immaginare che proprio l’attività fisica sarebbe diventata uno dei bisogni dell’umanità.

Nell’emisfero Nord del mondo la più grave carenza non è il cibo, o l’acqua, o la libertà: è la carenza di moto, altrimenti detta sedentarietà.

L’Organizzazione Mondiale della Sanità – organismo dell’ONU – già all’inizio del terzo millennio aveva inviato una raccomandazione ai Paesi “ricchi” nella quale si afferma che i loro cittadini avevano bisogno di svolgere molta attività fisica per combattere gli effetti della sedentarietà e di altri vizi moderni.

È un motivo per cui riteniamo che lo sport sia un diritto; ma ce ne sono altri: con lo sport si sta insieme, si socializza, si cerca il proprio benessere psicofisico, si prevengono le malattie e ci si libera dallo stress e si realizzano le proprie capacità.

La Nuova Atletica 87 è un’associazione di Sport Cultura e Tempo Libero, che organizza l’attività fisico-sportiva per tutti.

venerdì 21 febbraio 2014

Samia Yusuf Omar

La pista del Centro Sportivo Carraro sarà intitolata a Samia Yusuf Omar. La nostra società può solo condividere ed essere contenta per questa scelta dell'Assesorato allo Sport di Milano. Infatti l'idea che "tutti gli uomini nascono liberi e uguali", l'impegno per il "terzo mondo", per la solidarietà, la fratellanza e l'uguaglianza, per chi vive nel disagio, per l'equità, per i diritti dei popoli, sono nel DNA della nostra società: non a caso promuoviamo il Mercato Equo e Solidale e siamo associati aLibera i cui simboli portiamo sulla maglia.
Abbiamo deciso si dedicare a Samia Yusuf Omar una delle competizioni delle gare di atletica dei Giochi Sportivi Studenteschi Sud Milano.
Peccato, però, che l'atletica al Carraro sia trattata come il "terzo mondo" dello sport milanese.

L'atleta somala Saamiya Yusuf Omar.


L’ULTIMA CORSA DI SAMIA (32.12 nei 200 m a Pechino)
Gli sbarchi di questi giorni a Lampedusa di tanti disperati fanno tornare alla memoria la storia di Samia Yusuf Omar. Era la più grande di sei figli di una famiglia di Mogadiscio. La mamma gestiva un negozio di frutta. Il papà non l’aveva più: ucciso da un proiettile di artiglieria.
La storia di Samia, nata nel 1991, la racconta la scrittrice italiana di origine somala, Igiaba Scego, su ‘Pubblico’. Storia triste, amara. L’avventura di una ragazza della Somalia appassionata di atletica.

La sua figura ritorna oggi, in bilico tra Lampedusa – presa d’assalto da chi rischia la vita per sfuggire alla fame e, forse, alla morte – e le Olimpiadi di Londra. Direte: che c’entrano le Olimpiadi di Londra? C’entrano, centrano eccome!

Il pianto e il sorriso, il sorriso e il pianto. Perché la vita di questa ragazza dagli occhi malinconici, oggi, qualcuno la vede in parallelo con i grandi successi di un altro atleta somalo dal diverso destino: Mo Farah. Giunto in Inghilterra da rifugiato, Mo Farah è diventato oggi un eroe nazionale proprio per aver ‘firmato’, da protagonista, naturalmente a Londra, due straordinari successi sui 5 e i 10 mila metri.

Davanti al successo di Mo Farah, Abdi Bile, altro atleta-eroe per i somali, l’uomo che nel 1987, a Roma, ha vinto un oro nei 1500 metri, primo atleta somalo a farsi notare nell’atletica leggera mondiale, invita tutti a non dimenticare Samia.

“Siamo felici per Mo, è il nostro orgoglio – dice oggi Abdi Bile – ma non dimentichiamo Samia”.
Appena Abdi pronuncia queste parole, un grande silenzio avvolge i componenti del comitato olimpico nazionale. Lo sport unisce. Fatica, impegno, concentrazione, vittorie. Ma anche ricordi. Belli e, qualche volta, meno belli. Ma non meno intensi.

“Ricodiamoci di Samia Yusuf Omar …”. Parole che vanno dritte al cuore non soltanto di milioni di somali, ma anche di chi vede nello sport il trionfo della vita sulle difficoltà della stessa vita.

E’ Abdi che ricorda l’avventura di Samia che, nel 2008, appena quattro anni fa, piccola e gracile, partecipa alle Olimpiadi in Cina. Partecipa, naturalmente, per rappresentare il suo Paese, la Somalia. La piccola Samia prende parte alla gara dei 200 metri femminili di Pechino nel 2008.

Non vince. Anzi è ultima. Ma che importa? Per lei, arrivata da un Paese povero, piccola e gracile, essere a Pechino era già un grande successo.

Tornata a Mogadiscio è felice: “È stata – amava ripetere – un’esperienza bellissima. Ho portato la bandiera somala, ho sfilato con i migliori atleti del mondo”.

“Non dimentichiamo Samia”, dice Abdi, con le parole rotte dal pianto. Quattro anni dopo la vita di Samia è cambiata. Nel suo Paese non ce la faceva più. Troppe difficoltà. Troppa povertà. Così, come tante altre donne più giovani e più anziane di lei, come tanti uomini e come tanti ragazzi e ragazze della sua avara terra, Samia ha provato a raggiungere l’Occidente per ricostruirsi la vita.

Eccola su una ‘carretta del mare’. Pronta ad attraversare il Mediterraneo. Per raggiungere Lampedusa. O le coste della Sicilia. O la Puglia. Per salvarsi. Provando a lasciarsi alle spalle la disperazione. E forse la morte.
Ma il destino ha voluto – così si racconta – che la ‘carretta del mare’ sulla quale viaggiava Samia … 

Insomma, addio a questa splendida ragazza, inghiottita dal mare come tanti altri uomini e tante altre donne.
“Ricordiamoci di Samia”. E non dimentichiamo mai che gli uomini e le donne che sbarcano in questi giorni a Lampedusa sono esattamente come noi e come Samia: uomini e donne che sognano e sperano in un destino migliore.


“PUBBLICO”

Mo Farah, arrivato da rifugiato in Uk, ora è l’eroe nazionale: dopo aver vinto 10′000 e 5’000 metri è stato ricevuto anche da Cameron.  Saamiya,  invece, che aveva corso i 200 metri alle Olimpiadi di Pechino – erano solo in due gli atleti somali – a Londra non c’era: è morta in una carretta del mare cercando di raggiungere l’Occidente per fuggire dalla guerra.
di Igiaba Scego
Usain Bolt e Mo Farah a Londra

Una delle foto delle Olimpiadi di Londra più condivise sui social network è stata quella di Usain Bolt danzante accanto al giovane e sorprendente atleta britannico Mo Farah. Il re delle olimpiadi scherza con il re d’Inghilterra è stato detto da più parti. Infatti Mo Farah dopo aver dominato le sue due discipline, 10000 metri e 5000 metri, è stato celebrato in pompa magna sia dalle istituzioni sia dal pubblico del suo paese.
Cameron lo ha ricevuto a Downing street, la Royal mail in suo onore ha fatto dipingere d’oro la casetta postale di fronte all’ufficio di Isleworth Post e molti inglesi dopo il suo exploit stanno meditando di chiamare i prossimi eredi Mo. In poco tempo un ragazzo semplice e un po’ timido è diventato il simbolo di un paese intero. Anzi di due paesi a ben vedere. Infatti Mo Farah è di origine somala. È nato nel 1983 a Mogadiscio, in Somalia, un paese ancora oggi devastato da una tremenda guerra civile.
Oggi la Somalia è alla vigilia di un voto delicato, il 20 agosto si sceglierà infatti il nuovo presidente. Un voto molto atteso quello del 20 che potrebbe davvero traghettare il paese verso un futuro fatto di pace e speranza. I dubbi sono ancora tanti, l’esito delle elezioni incerto, ma i somali sembrano crederci sul serio questa volta. Anche chi aveva riparato all’estero medita ora di tornare, se non per sempre, almeno per dare un’occhiata. I voli per Mogadiscio sono pieni da mesi, non c’è un posto fino a Novembre dicono i bene informati.
C’è fermento. Certo trovare casa a Mogadiscio non è facile. Solo un piccolo lembo di terra è stato“pacificato”. Ed è in questo lembo che si svolge la vita politica e sociale della nuova Somalia. Il tutto naturalmente ha costi proibitivi e questo non salva comunque da eventuali attacchi kamikaze di Al Shabbab, il gruppo fondamentalista somalo legato al terrorismo internazionale. Per questo gli affitti di Mogadiscio sono alle stelle. Le quotazioni del mercato immobiliare sfiorano quelle del Marais a Parigi. Puro surrealismo di guerra.
Ma molti danno fondo ai risparmi, pur di assistere a una giornata annunciata da più parti come storica. C’è chi ha aperto ristoranti dopo 25 anni vissuti in occidente, chi fa dell’import-export tra Turchia e Somalia, chi sta lì solo per nostalgia. C’è un po’ di tutto in questa Mogadiscio 2012. Una realtà in movimento di cui i media globali si occupano poco e ancora con vecchi schemi da guerra fredda. Ed è questa realtà in movimento che Mo Farah ha in qualche modo rappresentato con la sua falcata da ghepardo. Una corsa inarrestabile la sua. Bellissima.
Una corsa che ha potuto fiorire grazie all’interessamento del suo professore di educazione fisica Alan Watkinson. Mo che sognava l’Arsenal e un ruolo come ala destra, si è trovato invece in una notte d’Agosto ad essere incoronato, da uno stadio, re d’Inghilterra. Da ragazzino rifugiato che non sapeva parlare una parola d’inglese a stella dello sport. Carriera fulminante quella del giovane anglo-somalo. Rimarrà indelebile nella mente di molti l’abbraccio di sua figlia Rihanna a fine corsa e il bacio di Tania, la compagna, in dolce attesa di due gemelli. Cartoline da incorniciare, soprattutto per una comunità come quella somala che ha tanto sofferto negli ultimi anni.
Ma le facce di una medaglia sono sempre due. Se in una c’è la gloria di Mo Farah, l’altra racconta di una Somalia che soffre ancora e che ha smesso di credere in un futuro possibile all’equatore. A ricordare il lato oscuro della storia è stato un ex atleta somalo, l’unico ad aver vinto una medaglia per questo paese in perenne conflitto. Il suo nome è Abdi Bile. Uno sconosciuto in Occidente, un eroe per i suoi connazionali che ricordano ancora con emozione l’oro nei 1500 metri vinto ai mondiali di Roma del 1987.
Un Abdi Bile invecchiato, ma sempre indomito, si è rivolto con il suo somalo d’altri tempi ad un platea riunita per ascoltare i membri del comitato olimpico nazionale. Fa una domanda Abdi Bile, chiede: “sapete che fine ha fatto Saamiya Yusuf Omar?”. Nessuno conosce questa ragazza. Abdi Bile spiega con pazienza che la ragazza ha partecipato ai giochi di Pechino 2008. Erano in due a tener alto il vessillo della Somalia durante la parata olimpica, una era proprio Saamiya. La gente mormora.
Si vergogna un po’ di non sapere il nome di questa ragazza che tutta sola è andata a correre i suoi 200 metri in quel di Pechino. Abdi Bile ha la voce strozzata, non sa come continuare il suo racconto. Una lacrima scende su quel viso segnato. Qualcuno gli tende un fazzoletto, ma lui dice “non ne ho bisogno” poi prosegue “la ragazza, Saamiya è morta … morta per raggiungere l’occidente. Aveva preso una caretta del mare che dalla Libia l’avrebbe dovuta portare in Italia. Non ce l’ha fatta. Era un’atleta bravissima. Una splendida ragazza”.

Il pubblico applaude. Un po’ per smorzare quella tensione infame, un po’ perché quel dolore è anche il proprio dolore. Tutte le famiglie somale hanno avuto a che fare con quelle carrette. Tutti hanno avuto dei prigionieri nei lager libici o dei morti nel mar Mediterraneo. Saamiya e Mo due destini simili che hanno preso strade diverse. Anche Saamiya come Mo per partecipare ai giochi di Pechino 2008 aveva fatto molti sacrifici. Il paese era dominato dai fondamentalisti islamici, gente che non vedeva di buon occhio una donna che faceva sport. Ma Saamiya aveva dei sogni. Era cresciuta in povertà, la più grande dei sei figli. Voleva farcela a tutti i costi. Sentiva che se si fosse allenata bene qualcosa la vita le avrebbe donato.
Londra 2012 era nei suoi programmi. Dopo Pechino non le sembrava poi così lontana quella terra magica che aveva dato asilo a molti suoi connazionali,.
Girando per il web ci si imbatte spesso nel volto adolescente di Saamiya. Lei avvolta dall’azzurro della divisa somala e con una fascia bianca per tenere lontani dalla fronte i suoi bei ricci neri. Wikipedia ha una scheda su di lei. Wikipedia sa che Saamiya è nata nel 1991, il primo anno di guerra in Somalia, ma non sa che è morta nel mar Mediterraneo.
Mo Farah e Saamiya Yusuf Omar due ragazzi, lo stesso paese di nascita, destini incrociati e opposti. “Siamo felici per Mo, è il nostro orgoglio” dice Abdi Bile “ma non dimentichiamo Saamiya”. Il presidente (o la presidentessa: sono ben due le donne candidate) che uscirà dalle urne somale dovrà tener conto di questi due destini se vorrà traghettare questo paese ferito verso un futuro senza guerra.

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